Napier Deltic, il diesel più pazzo di sempre... o quasi - Rollingsteel.it

2022-12-29 11:03:02 By : Mr. Qizhong Huang

Figlio del Dio del fuoco, plasmato dalle leggi della termodinamica e da quelle della metallurgia, il motore diesel, oggigiorno capro espiatorio dei mali del mondo, meriterebbe un po’ di gratitudine in più. Instancabile compagno e collega del marinaio, del camionista e del ferroviere,  ci ha scarrozzato in lungo e in largo per il mondo intero, ci ha dato da mangiare, ci ha costruito le case dove abitiamo, senza mai chiedere troppo in cambio, producendo pazientemente coppia motrice senza farsi troppo notare a parte qualche sbuffo di fumo nero ogni tanto.

C’era un tempo in cui il motore a NÀFTA era visto come l’ideale del progresso dell’industria. Rudolf Diesel, colui che lo ideò, merita un posto d’onore nei libri di storia. San Dante Giacosa distingue i motori ad accensione per compressione in veloci, medio-veloci e lenti. Quelli veloci sono quelli delle automobili. Quelli lenti quelli delle navi. Quelli in mezzo dei treni. Ed è di uno di essi che parla questo articolo. Ma mettiamo un attimino da parte le rotaie e andiamo indietro di qualche anno in Germania.

Vedendo che diavolerie si inventarono i tedeschi prima e durante il secondo conflitto mondiale, viene da pensare che è un vero peccato che fossero nazisti e che la guerra l’abbiano scatenata loro. Diavolerie anche al limite della ragione, perché quando leggi che avevano i carri armati a benzina e gli aerei a gasolio e i Messerschmitt a iniezione di benzina che solo la pompa di iniezione era composta da più pezzi di un Rolls-Royce Merlin… realizzi perché la guerra l’hanno persa. Se ai carri armati ci pensava un certo Porsche, i secondi furono dei capolavori della Junkers & Co., azienda che adesso produce caldaie per la Bosch ma una volta faceva aerei da guerra e da trasporto e la quasi totalità dei motori aeronautici crucchi.  D’altronde la Lotus è nata facendo auto da corsa ed è finita per produrre lavatrici. Siamo lì, con tutto il rispetto per le lavatrici fatte bene.

Tornando all’aereo e tagliando di molto, l’idea di farlo andare a gasolio prese piede perché secondo gli alti papaveri del RLM, un diesel con i suoi bassi consumi era l’ideale per poter equipaggiare bombardieri a lungo raggio. Fatto sta che non c’erano molte esperienze nei diesel veloci e medio-veloci, sicché i migliori rapporti peso/potenza dei motori di allora erano nell’ordine di un cavallo ogni dieci chili di peso.

Chiunque all’epoca si fosse inventato di montarne uno su un aereo sarebbe passato per scemo, era come progettare una bicicletta a vapore (qualcuno l’ha fatto). Ma evidentemente a quei tempi c’erano talmente poche esperienze che tutto doveva sembrare possibile, anche far volare un elefante. In effetti oggi diamo per scontato tante cose che nell’ingegneria ai tempi in cui non esisteva non dico il CAD, ma praticamente neanche le calcolatrici, nessuno aveva ancora stabilito. La disciplina si componeva di matite, chine, tecnigrafi, ampi fogli bianchi, collaborazione dei santi del calendario e qualche prova di trazione.

Per esempio: oggi i motori termici sappiamo che si possono classificare in base alla disposizione dei cilindri, che può essere, grosso modo, in linea, boxer e a V o a W, cioè due V affiancate. Il tizio della Junkers con davanti un foglio bianco grande come un lenzuolo a due piazze e con molta fantasia in testa pensò: “perché non costruire un motore boxer ma al contrario?”. Vale a dire che la coppia di pistoni anziché condividere l’albero motore condivide la camera di combustione con la conseguenza che il motore ha due alberi e nessuna testa.

Dove avevamo già visto questa soluzione? In alcuni prototipi di motore motociclistico a miscela della DKW (la bisnonna dell’Audi), che in alcuni casi ebbe un seguito produttivo.

L’albero di destra comanda la pompa dell’acqua, quello di sinistra l’alternatore e la pompa di lavaggio (poi ci torniamo). Se aguzzate la vista (parecchio, perché la risoluzione fa cacare) notate che i due alberi sono disassati di 20°.

Bene, in tutto ciò alla Jumo (acronimo di Junkers Flugzeug und Motorenwerke) non erano dei pazzi visionari ma sapevano il fatto loro: questo sistema permette infatti di sfruttare al meglio ogni scoppio, con un miglioramento del rendimento termodinamico, ma anche di risparmiare uno sfracello in termini di peso, visto che in questo modo si può eliminare un componente che di solito influisce abbastanza sul peso di un motore, specie nei diesel: la testata, che è fisicamente costituita dal pistone posizionato dall’altra parte.

Ovviamente non essendoci posto dove ficcare le valvole, il funzionamento secondo il ciclo a due tempi diventa obbligatorio, soluzione che comunque è comune nei grandi motori a nafta. L’inefficienza cronica del motore 2T a miscela dipende infatti anche e soprattutto dall’alimentazione a carburatore. A grandi linee, il guaio è che non essendoci le valvole, le fasi di aspirazione e di scarico per un certo periodo si sovrappongono perché le rispettive luci del cilindro rimangono aperte contemporaneamente. Tale periodo prende il nome di fase di lavaggio.

Parte della miscela di aria e combustibile anziché bruciare lascia incombusta la camera di scoppio, con conseguente crollo del rendimento, motivo per cui il vostro Phantom beveva come una grondaia. In ogni caso, i motori diesel devono essere a iniezione per forza, e il fatto di poter controllare separatamente l’apporto d’aria e quello di carburante nella camera di scoppio, permettendo di effettuare il lavaggio con aria pura, risolve il problema. Diamo qualche numero: il motore Junkers Jumo 204, da quel gioiellino che è, è dotato di 4 iniettori per ciascuno dei 6 cilindri (e quindi 12 pistoni), alimentati da una pompa rotativa Bosch. Con una cilindrata di 28,6 litri  vanta il sorprendente rapporto peso potenza di 1:1, 750 cv per 750 kg, dieci volte migliore rispetto alla media dell’epoca. La naturale evoluzione, lo Jumo 205/207, è ancora migliore: 16,6 litri, 595 kg per 880 cv che per il 207 (turbocompresso) toccano i 1000.

Sebbene sia diventato famoso con i suoi tre radiali BMW, su alcuni prototipi del Junkers Ju 52 venne testato anche il Jumo 204 diesel a pistoni contrapposti

Attenzione: da ora in poi quando leggerete la sigla BR, non stiamo progettando un attentato terroristico, ma intendiamo ma British Railways.

Facciamo ora un saltino avanti nel tempo di qualche anno e di una guerra mondiale. Visto che ci siamo, trasferiamoci anche nel Regno Unito. Nel 1947 la guerra è finita, ma lo sport della corsa al riarmo non passa mai di moda. L’Ammiragliato inglese emette un bando per la fornitura di motori diesel leggeri e veloci, tre parole che nella stessa frase fanno ancora a cazzotti. C’è una ragione dietro, però: vanno montati su delle piccole cacciatorpediniere che fino ad allora erano state equipaggiate con motori aeronautici a benzina, la quale ha il brutto difetto di essere infiammabile, per cui con una cannonata ben assestata la bagnarola saltava in aria, e agli occupanti toccava rifare i documenti in marmo.

Ebbene, la Napier & Sons, appartenente al gigante dell’industria English Electric (famosa poi per il micidiale Lightning), era anch’essa una ditta con più di qualche mente vulcanica nei propri uffici, e anch’essa aveva esperienza in campo di follie motoristiche; fra tutte, il propulsore aeronautico Sabre montato sui caccia Hawker Typhoon e Tempest, con cilindri ad H (immaginate due boxer tradizionali sovrapposti) e distribuzione con valvole a fodero. Cronicamente inaffidabile, fu responsabile di più di qualche buco per terra ma anche di parecchi successi in battaglia e che vi raccontiamo QUI.

Detta Napier alla lettura del bando della marina, si ricordò di avere acquistato i brevetti dello Junkers Jumo 204, producendone su licenza pochi esemplari con il nome di Culverin, senza tuttavia ricevere ordinazioni. Scartabellando, scoprì pure che i nazi avevano prodotto un FOTTUTO MOSTRO denominato Jumo 223 che altro non è se non l’unione di 4 207 in corrispondenza degli alberi motore, a formare un rombo, per un totale di 24 cilindri e 48 pistoni.

Questa figata motoristica, nella sua evoluzione chiamata 224, eroga qualcosa come cinquemila cavalli di potenza (finalmente cominciamo a parlare di numeri seri), ma non riscuote entusiasmo, se non il nostro 90 anni dopo, oggi. L’idea di partenza, accroccare più motori a cilindri contrapposti insieme, comunque è ottima e mettendo assieme un po’ di conoscenze pregresse, vecchi progetti e nuove tecnologie la ditta riesce a mettere a punto, con non poche difficoltà, il Deltic, l’unico motore triangolare diesel sulla faccia della Terra (più in la qualcuno traslerà l’idea su un’auto da corsa a vapore ma questa è un altra storia…).

Il principio è lo stesso dello Jumo 223: un cilindro con una coppia di pistoni per lato e un albero motore per ogni vertice; questi sono poi interfacciati da ingranaggi in maniera da trasmettere la coppia su un unico albero uscente. Per risolvere qualche problema di equilibratura che inevitabilmente si presentò, si decide di far ruotare due alberi in un verso e il terzo nell’altro. Alla fine il motore finisce a catalogo in due frazionamenti, a 9 e 18 cilindri, e con o senza sovralimentazione tramite turbina a gas di scarico.

il Deltic in sezione, il nome stesso deriva dalla sua forma, quella della lettera delta maiuscola nell’alfabeto greco Δ

Anche la versione “aspirata”, comunque, presentava un compressore meccanico che fungeva da pompa di lavaggio, e dunque non era definibile ad aspirazione naturale. Del resto, non lo è nessun motore a due tempi: come abbiamo detto prima, durante un tratto del suo ciclo di funzionamento la luce di scarico e quella di aspirazione si trovano aperte contemporaneamente, il che impedisce il risucchio dell’aria nel cilindro per effetto della depressione creata dalla discesa del pistone e, contemporaneamente, non consente l’espulsione dei gas di scarico per effetto della sua salita, dunque l’aria va letteralmente pompata attraverso il cilindro stesso in qualche maniera. Nei piccoli motori a miscela detta pompa è costituita dall’insieme del carter e dall’albero a gomiti, col duplice vantaggio che l’olio va a lubrificare così anche le bronzine. Nei motori navali, come abbiamo visto, la faccenda è un pelo più complicata. Ma ora basta fare i pignoli.

L’Ammiragliato inglese si dimostrò talmente interessato al progetto da ordinare questo modello di motore anche per alcune dragamine. Si trattava di un motore sorprendentemente potente (1750 cv per il 18 cilindri a compressore meccanico, 3700 per quello turbocompresso), per la cilindrata in gioco molto veloce (minimo a 750 giri e potenza massima erogata a 1500), umano nei consumi, aspetto cui a nessuno fregava ancora un cazzo, e sicuro per il tipo di carburante che lo alimentava.

Dragamine HMS Bossington propulsa da n.2 motori Deltic.

Per le applicazioni ferroviarie per le quali il Deltic è oggi conosciuto bisogna attendere gli anni Cinquanta, quando le BR, che miss Thatcher non aveva ancora privatizzato, stavano attuando una politica di modernizzazione del proprio parco locomotive per la maggior parte alimentate a carbone. Non che non ce ne fosse bisogno. Come spesso accade in contesti dove è disponibile molta materia prima energetica di origine fossile a bassissimo costo, l’innovazione nel settore trasporti inglese procedeva a rilento.

Negli anni ’50 l’Italia aveva una delle reti ferroviarie elettrificate più estese al mondo in assoluto, e questo perché l’unico carbone che non siamo costretti a importare è quello che ci porta la befana, mentre i fiumi scorrono gratis e quindi si possono usare per produrre corrente. Nel frattempo, giusto per dire, in Unione Sovietica comparivano le prime centrali nucleari. Contemporaneamente, gli inglesi continuarono a produrre locomotive a carbone fino al marzo 1960 compreso. Non è una novità che il capitalismo favorisca questo tipo di processi. Viene anche da chiedersi cosa spinse gli inglesi ad abbandonare il vapore, e la risposta è nella quantità enorme di lavoro che sta dietro a una locomotiva di questo tipo, che necessita di accudienza notturna, manutenzione continua per rimuovere cenere e calcare e un tempo di almeno 12 ore per un’accensione da freddo. E in Inghilterra fa freddo e umido spesso.

È chiaro, comunque, che a questi soggetti conveniva poco elettrificare e quindi videro il futuro nel gasolio, carburante utilizzato largamente nelle ferrovie degli States. Problema: i servizi rapidi erano allora gestiti sulla London and North Eastern Railway dalle locomotive carenate classe A4, con una velocità d’esercizio di 160 km/h che nessuna macchina a gasolio fino ad allora aveva eguagliato.

La A4 “Mallard” (le locomotive inglesi si chiamavano tipo i capi Cheyenne, avevano un nome come le navi, solo che una volta esauriti re, duchi e santi decisero di chiamare questa “Germano Reale”) raggiunse nel 1938 i 202 km/h, record tutt’ora imbattuto per locomotive a vapore, se non in via non ufficiale dalle S1 della Pennsylvania Railroad: nessun naftone correva quanto questo mostro da 170 tonnellate con ruote motrici di due metri di diametro. Nessuno fino al 1961, quando la Napier appronta a sue spese un prototipo equipaggiato col suo gioiellino.

Da destra a sinistra: A4 Mallard, prototipo Deltic e prototipo del più grande fallimento su rotaie l’Advanced Passenger Train

Alla presentazione delle British Rail Class 55 fece seguito l’ordinazione per due diversi modelli di locomotive. Pochi lo sanno ma la “grande” Deltic ha avuto anche una sorellina più piccola: la serie Class 23 “Baby Deltic”. C’è un motivo se questa macchina fu vittima di damnatio memoriae: equipaggiata con la versione più piccola del Deltic con turbocompressore, di fronte a prestazioni non esaltanti (1100 cv) si rivelò più inaffidabile di una Rover motorizzata serie K, con frequenti rotture del blocco motore e in generale con una quantità di rogne tale che entro il 1971 tutti i 10 esemplari saranno già accantonati o demoliti.

Da quanto poco è durata si trovano solo foto in bianco e nero

Di tutt’altra pasta erano fatte le Deltic “vere”. Due carrelli con tre assi e tre motori a corrente continua ciascuno, 101 tonnellate di massa, DUE motori Napier Deltic 18 cilindri con compressore meccanico che trasmettevano a un alternatore 3300 cv complessivi, contro i 1800-2000 di macchine contemporanee (Class 37 e 45), velocità di omologazione 160 km/h che erano in grado di mantenere e superare per lunghe distanze. Non ne vennero ordinate molte, solo 22, in confronto alle 55 A4 circolanti: questo per il semplice motivo che una locomotiva a nafta ha un tempo di fermo macchina per manutenzione enormemente inferiore.

Interessante è il tipo di contratto stipulato all’acquisto. I motori Deltic erano più complicati e veloci dei motori diesel contemporanei, richiedendo una manutenzione più frequente e complessa. Una locomotiva percorre durante la sua vita milioni e milioni di chilometri, per cui non era infrequente che un motore venisse tirato giù e sostituito di ogni elemento sottoposto ad usura; bene, se già tirare giù una testa di un motore in linea non è uno scherzo, pensate a cosa deve voler dire tirare fuori 36 pistoni da un motore triangolare che la testa neanche ce l’ha.  Ecco che inclusi nelle 155.000 sterline per ogni macchina (circa 4 milioni di euro odierni) c’erano 5 anni di manutenzione completa, comprensivi della produzione di alcuni motori di riserva: in questo modo, in caso di guasto o manutenzione si sostituiva in un amen l’unità interessata con una rigenerata, ottimizzando i tempi, e la si spediva in manutenzione con tutta calma. Oggi questi contratti con manutenzione inclusa sono lo standard, ma allora non se ne erano ancora visti.

Immaginatevi di andare a una fiera di qualche sorta e trovarvi lui davanti al posto di… qualsiasi altra cosa.

Il manuale d’officina era in 52 volumi

“Non ha la distribuz-“ “Ci mancherebbe anche quella!”

Nel 1960 tutti i treni, autobus, camion, insomma qualsiasi mezzo di trasporto “pesante” di tutto il globo terracqueo avevano adottato come standard di frenatura il sistema WABCO, o Westinghouse, dove un’unica condotta pneumatica lungo tutto il treno viene mantenuta alla pressione costante di 5 bar e la riduzione della pressione stessa tramite il rubinetto del freno provoca la graduale applicazione dell’azione frenante, sistema sicuro, efficace ed efficiente. Indovinate chi si prese indietro per rimanere fedele ai propri ideali conservatori?

Le Deltic uscirono dalle fabbriche col solo sistema frenante Hardy, l’unico utilizzato allora nel Regno Unito, che seguiva il principio direttamente opposto: nella condotta lungo tutto il treno veniva creato il vuoto, mentre la frenatura veniva data ripristinandovi la pressione atmosferica. Non serve neanche aver dato Fisica 2 per capire qual è il sistema più efficace dei due, e neanche per decidere che il secondo è inadatto a un treno che viaggia a 160 all’ora. Infatti dopo un po’ si svegliarono anche alle BR decidendo di dotare del doppio impianto tutte le macchine, in modo da mantenere la compatibilità con le vecchie carrozze.

Cabina di guida. Si noti quella specie di grosso bersaglio giallo e nero sotto le cuffie: è l’allarme dell’Automatic Warning System, uno dei primi congegni elettromeccanici in grado di affiancare il macchinista nella prevenzione degli incidenti. È meno avanzato del nostro SCMT, ma ha anche qualche decennio in più

Ma non è finita qua con le tecnologie “legacy”. Nei treni a vapore il riscaldamento delle carrozze era realizzato col sistema più logico: facendo circolare del vapore proveniente dalla caldaia all’interno di radiatori. Nessuno aveva voglia di riconvertire gli impianti a tutte le carrozze, per cui con massimo pragmatismo britannico le Deltic uscirono dalla fabbrica dotate di due “cucchiare” per pescare acqua lungo dei vasconi posizionati in parallelo ai binari, come nelle vaporiere, e di una caldaia a gasolio apposita per il riscaldamento, poco importava che consumasse come i motori. Ognuno ha i suoi sistemi, e sono queste piccole sfumature, queste sottigliezze, quest’aria moderna e anacronistica insieme a rendere le Deltic locomotive sì moderne, ma ancora appartenenti alla cultura steampunk a pieno titolo.

Nafta. Qui nella più recente livrea azzurra.

La formula del motore diesel due tempi a pistoni contrapposti non è stata del tutto dimenticata. Esiste oggi una compagnia, la Achates Power, che da diversi anni ne sperimenta alcune applicazioni; fra di esse un 9800 cc tre cilindri adatto a mezzi su gomma da 462 cavalli, che promette una riduzione dei consumi del 30% rispetto a un motore tradizionale di pari potenza. È vero che il diesel sembra condannato a morte, da ragioni più ideologiche e politiche che ambientali. Ma è vero anche che sui mezzi pesanti sarà un motore duro a morire. E chissà, magari proprio questa tecnologia verrà riscoperta.

Oggi sono sopravvissute 6 Class 55 Deltic, peraltro in buone condizioni e utilizzate per treni storici di tanto in tanto. Ad ogni loro passaggio, il rumore inconfondibile del Deltic fa scendere sempre una lacrimuccia a più di qualche appassionato. In parallelo al disastroso progetto dell’Advanced Passenger Train ad assetto variabile, che però era elettrico, gli inglesi portarono avanti con più successo quello dell’High Speed Train 125, un po’ più tradizionale, ma degno di nota per essere uno dei pochi treni a gasolio con una velocità in servizio di 200 km/h ma, come diciamo sempre, questa è un’altra storia. Ad oggi le Class 55 rimangono fra le locomotive inglesi più conosciute all’estero, fra le più innovative in assoluto e anche fra le più belle esteticamente; la loro linea è sì ispirata alle locomotive americane contemporanee, ma la forma arrotondata delle cabine e dell’imperiale, imposta dalla ridotta sagoma limite in vigore sulle ferrovie britanniche, le rende abbastanza uniche, fra tutte nella livrea azzurra con baffi color crema del prototipo. Tecnologiche, veloci e al tempo stesso ignoranti.

Il prototipo. Esteticamente differisce dai modelli di serie per i baffi e per il terzo faro frontale in stile americano.

Bene, dopo aver conosciuto il Diesel più incredibile mai costruito ci pare giusto parlarvi anche del motore da cui il Deltic pare abbia preso vita, ancora più eccentrico ma che non è mai andato oltre lo stadio di prototipo: il Jumo 223.

Verso la fine degli anni 30 il RLM tedesco emanò un bando per la costruzione di bombardieri a medio e lungo raggio, tra le varie specifiche c’era la potenza dei propulsori che doveva assestarsi intorno ai 2000 cv cadauno. La Junker si mise subito all’opera e sviluppò due tipi di motore: il 222 e il 223.

Il 222 era forse più convenzionale, si trattava di un 24 cilindri a tripla V (6 blocchi da 4 cilindri) benzina a 4 tempi. Da fuori sembrava uno stellare ma la distribuzione era quella di un motore a V, con una cilindrata di 46.3 litri era compatto e potente, dotato di 3 compressori, uno per ogni V di cilindri, dichiarava 1900 cv (2500 cv come picco a 3200 giri/min). Era destinato ad equipaggiare bombardieri medi ma a causa degli eventi bellici venne sviluppato lentamente e a malapena fu testato su qualche aereo.

un 222/E esposto al Deutsches Museum di Monaco e la sua sezione

Per i bombardieri pesanti fu invece sviluppato il rivoluzionario 223. Costruire un bombardiere a lungo raggio è una bella sfida, bisogna fargli portare un sacco di bombe il più lontano possibile e poi permettergli di tornare a casa. Quindi ci vogliono motori potenti, ma i motori potenti sono assetati e quindi ci vuole tanto carburante. Ma il carburante pure ha un peso e se metto tanto carburante non posso mettere tante bombe… è come un cane che si morde la coda.

Alla Jumo consci di questi problemi pensarono una cosa. Se lo scopo è ridurre i consumi, noi in casa abbiamo il 204, un diesel due tempi (che abbiamo conosciuto più su) eccellente e parco che va benissimo, peccato che con 750 cv a malapena un bombardiere lo fai si e no rullare sulla pista. Data la sua conformazione aggiungere altri pistoni avrebbe comportato allungarlo troppo con conseguenti problemi strutturali quindi nisba. Come risolvere il problema?

Un bel dì ad una riunione l’ingegnere  Dr. Johannes Gasterstädt, evidentemente dopo aver esagerato con gli schnapps se ne esce con l’idea di mettere insieme ben quattro Jumo 204 disposti a rombo (!) per poter facilmente raggiungere la soglia dei 2000 cv (diesel e a due tempi). Ovviamente cosa facile a dirsi, meno a farsi.

Abbiamo visto sopra che il 204 era un motore con due alberi e nessuna testa. Per il 223 si pensò bene di disporre quattro alberi motore ai vertici del rombo ed ognuno muoveva due file di pistoni. Vennero create due fusioni distinte, una anteriore e una posteriore, ognuna incorporava 4 blocchi di 3 cilindri (ogni cilindro conteneva due pistoni). In mezzo a queste era messo a sandwich un enorme ingranaggio che riceveva il moto dai quattro alberi motore tramite ruote dentate poste a metà di ogni albero. A questo ingranaggio sarebbe stato calettato anteriormente l’albero dell’elica e posteriormente la ventola del compressore.

quando una foto vale più di mille parole

Gli ingranaggi dell’albero motore sinistro e destro azionavano ciascuno degli alberi a camme separati destinati a comandare le pompe di iniezione del carburante. Questi alberi a camme e le pompe di iniezione erano situati vicino agli alberi motore sinistro e destro. Lungo tutto il motore per ogni bancata erano presenti due condotti, uno di sezione quadrata per l’aspirazione e uno di forma triangolare per il refrigerante. Gli scarichi venivano raccolti in quattro collettori e deviati verso un turbocompressore.

L’ingranaggio centrale e la metà anteriore del motore. Notare gli ingranaggi per gli alberi a camme della pompa di iniezione del carburante dagli alberi motore sinistro e destro. Il refrigerante scorreva attraverso le porte triangolari vicino agli alberi motore superiore e inferiore. L’aria scorreva attraverso le porte quadrate vicino agli alberi motore sinistro e destro.

il ventolone posteriore dell’aspirazione

Furono creati un paio di prototipi, la cilindrata totale risultò essere a 28953 cc e il peso era di 1400 kg. Al  banco il motore diede il risultato di ben 2040 cv a 3.980 giri/min, ma a piena potenza insorsero problemi di vibrazioni e risonanze che spaccavano gli alberi motore come fossero grissini. Il 223 fu abbandonato nel 1942 per concentrarsi sul 222 e sui nuovi turbogetti Jumo 004. Nulla impedì però di pensare ad una sua evoluzione, sotto sotto alla Jumo, intuendo il futuro dell’aviazione post-bellica, speravano di poter poi vendere il loro motore a produttori di aerei commerciali.

Stavolta alla Junkers tirarono fuori qualcosa di veramente cazzuto. Ripresero lo schema del 223 ma usarono come base il fratello maggiore del 204: il Jumo 207 (accreditato di una potenza massima di 2200 cv). Venne fuori un mostro di 66,50 litri di cilindrata dotato di 4 turbocompressori (uno per bancata) erogante la bellezza di quasi 5000 cv e chiamato con molta fantasia 224!

In alto si notano due dei quattro turbocompressori posizionati dietro il motore. Sotto lo schema degli ingranaggi del Jumo 224 che mostra la rotazione dell’elica sinistra e destra (era pensato per una configurazione di doppia elica controrotante). Il disegno indica il numero di denti (z) e la loro altezza (m) su ciascun ingranaggio.

Nel novembre 1944 la RLM ordinò il materiale per cinque motori Jumo 224. In questa fase della guerra a causa dei frequenti bombardamenti alleati era quasi impossibile trovare appaltatori in grado di produrre i componenti specializzati necessari per il motore. Alla fine della guerra, il prototipo del Jumo 224 era completo per circa il 70%, quando le truppe alleate si avvicinarono alla fabbrica Junkers a Dessau, in Germania, verso la fine dell’Aprile 1945, quasi tutti i piani, i progetti e i documenti del 224 furono distrutti per evitare che le informazioni cadessero nelle mani degli alleati.

Alla fine del conflitto i sovietici , interessati al progetto, obbligarono convinsero i tecnici tedeschi a continuarne lo sviluppo presso di loro e fu così che armi e bagagli furono trasferiti presso lo stabilimento di Tushino vicino Mosca. Peccato che parti e attrezzature necessarie alla costruzione a Tushino non arrivarono mai e scomparvero misteriosamente nel nulla. Costruire un motore di siffatta complessità nella Russia post bellica si rivelò più difficile che farlo sotto le bombe alleate e nel 1948 fu messa la parola fine al progetto.

Comunque ora che sapete come stanno le cose, portate un pò più di rispetto a quella caldaia dalle nobili origini che avete li sul balcone

Uno studente di ingegneria meccanica con una cronica passione per qualsiasi oggetto motorizzato viaggiante su due rotaie distanti 1435 millimetri. A volte anche qualcuno in meno. O senza rotaie.

Come al solito siete insuperabili. A quanto mi risulta, però, su alcune corvette la marina russa ( e prima ancora sovietica), imbarcava i motori diesel radiali Zvezda ( la notizia è sia sul web, ma l’ho letta anche su “Rivista Italiana Difesa”, rivista della quale non riesco a trovare l’articolo, mannaggia). A proposito di radiali o stellari, li ho sempre preferiti ( dal basso della mia ignoranza, tengo a sottolinearlo), perché la soluzione più semplice (e più elegante), per me, nel caso di architetture “esotiche”, è proprio quella russa, i motori radiali ( raffreddati a liquido), si presterebbero bene ad un eventuale aggiunta di “stelle” per aumentare le potenze, o al contrario, una diminuzione di potenza a seconda del suo imbarco su un cacciamine o su un pattugliatore.

Gran bell’articolo, complimenti, citata pure la Baby Deltic ed i problemi della gestione di un parco di locomotive a vapore, anche se le macchine Britanniche so erano evolute assai di più che in Italia (per i motivi correttamente elencati nell’articolo)

Le caldaie per generare vapore per il riscaldamento delle carrozze le abbiamo avute pure noi, sicuramente su alcuni carri riscaldo e forse anche sulle alcune macchine trifase, ma qui potrei dire un’eresia.

Sui nomi delle macchine inglesi, beh, loro non parlano di gruppi come noi Italiani, o di serie come in Francia e Germania, da loro le locomotive sono suddivise in classi, come le navi, e i nomi erano per le macchine di maggior prestigio, Le A4, per la maggior parte, presero nomi di uccelli dato che il loro progettista era un appassionato di bird watching. Le Deltic ebbero anche loro un nome, quello di cavalli da corsa per le macchine del deposito di Londra e di unità dell’esercito per quelle del deposito di Edimburgo.

Bravo!articolo eccezionale di rara precisione e di facile comprensione tecnica le faccio i miei piu sinceri complimenti e la ringrazio per aver riacceso un mio personale ricordo Ho prestato il servizio militare sullo splendido INCROCIATORE VITTORIO VENETO e da motorista mi occupavo anche della manutenzione e avviamento di due splendidi motocompressori junkers situati nell’omonimo locale propio sotto il locale equipaggio reparto GN ma questa e’un’altra storia

Complimenti per la preparazione. Ottimo articolo.

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